Le “Veneri” preistoriche icone del nostro essere umani

Quando, 40.000 anni fa, i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico e, in seguito, gli allevatori-agricoltori del Neolitico iniziarono a raffigurare sé stessi, scolpirono, incisero o dipinsero quasi soltanto immagini femminili, utilizzando pietra, osso, palchi di cervo, avorio e, infine, la terracotta.
Il corpo femminile, per lo più privo di dettagli anatomici e somatici, reso attraverso la sintesi dei volumi salienti, cioè seni, addome, bacino, glutei e gambe, secondo uno schema simbolico riconosciuto per millenni, fu il mezzo con il quale l’essere umano imparò ad autorappresentarsi. L’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento arricchì questo schema di nuove connotazioni e significati, in qualche caso confluiti nella mitologia classica. Fin dal Paleolitico, la capacità generativa della donna venne associata alla possibilità di dispensare la vita e la morte: furono così riprodotte donne in evidente stato di gravidanza, con forme rotonde e morbide (Lespugue) o, al contrario, con segni che sembrano marcare l’avanzare dell’età (Mal’ta, Russia). Nel Neolitico, la domesticazione di animali e piante riscattò l’umanità dalla natura e la Signora delle fiere di Çatal Höyük (Turchia) sembra sancire questo passaggio cruciale. Alla donna a cui si attribuì tale riscatto, le diverse comunità richiesero fecondità e abbondanza.
È una donna forse in preghiera la statuetta neolitica di Passo di Corvo, in Puglia, ritratta con il viso rivolto verso l’alto, nell’atto probabile di un contatto con l’invisibile per assicurare la fertilità di campi ed armenti. Sempre alla sfera della preghiera, sono forse da riferire altre raffigurazioni femminili le cui braccia sono ora slanciate verso l’alto, ora rigidamente fissate ad angolo retto sotto i seni. Pose o gesti analoghi, osservati presso attuali comunità di diverse etnie, sono parte di danze, movimenti o posizioni sacre nelle quali il corpo si muove o si arresta per “dialogare” con il sovrannaturale.
Alla piccola statuetta di “donna dormiente”, così fisicamente carnosa, collocata 6.000 anni fa nelle profondità del tempio di Hal Saflieni, a Malta, fu forse chiesto di esorcizzare in un auspicato quieto sonno, l’ultima tappa della parabola umana sulla terra. Sicuramente più terrene e vitali, seppure un po’ altere, sono le numerose raffigurazioni femminili del Neolitico balcanico, realizzate in argilla e rese particolari da un abbigliamento ricercato nelle forme e nei colori.
Procreatrice, sacerdotessa, guaritrice, protettrice, forse già divinità o, semplicemente, donna: in ciascuno dei diversi attributi, le raffigurazioni femminili preistoriche propongono i molteplici modi in cui il nostro essere umani si può manifestare.

Nicoletta Volante