Nel variegato mondo dei beni culturali ricorre da sempre il tema del “riuso” o del “reimpiego”: dai frammenti di statue e di affreschi, dalle predelle di trittici o pezzi di tavole, cornici, e chi più ne ha più ne metta… qualunque opera che avesse perso la sua originale completezza poteva essere utilizzata in un nuovo contesto, se portatore ancora di significato o funzione.
Durante il lavoro iniziale di catalogazione ci siamo trovati davanti molto spesso a condizioni simili: boccette contenenti inizialmente una sostanza ora ne contengono un’altra, etichette incollate sopra a etichette precedenti, a testimonianza di una prassi di lavoro e di conservazione. Abbiamo trovato più marchi su uno stesso oggetto: quello del produttore del contenitore in vetro, quello del laboratorio galenico, quello della ditta produttrice. Immancabile il marchio “veleno” per le sostanze pericolose. Si è posta subito la domanda: “cosa” stiamo studiando? Che definizione diamo all’oggetto? Ci riferiamo al contenitore o al contenuto? “Bottiglia”, “boccetta”, “confezione”, oppure diamo priorità al contenuto? “Essenza di arancia”, “Benzoato di Guaiacolo”, “Polvere di Boldo”…
Queste domande interessano anche il metodo di allestimento e conservazione: come valorizzare la raccolta? Per materiali o per sistematica chimico-farmaceutica?
Lo studio si fa interessante e coinvolgente, e cercando in rete non ci sono molti casi di musealizzazione di una raccolta di questo tipo: ampia, completa e legata al suo contesto storico e culturale, fin nel coinvolgimento dello stesso donatore nella pratica catalografica. I materiali infatti sono stati trasportati dal dottor Ghiara al museo, in più mandate ed ogni volta egli ha compilato le schede cartacee con i dati inventariali aggiungendo informazioni ulteriori o curiosità quando a lui note. Contestualmente il conservatore del museo ha portato avanti la campagna fotografica e provveduto alla pulizia degli oggetti e a sigillare i contenitori con le sostanze velenose, oltre che ad allestirli in armadi chiusi.
Per ora la raccolta è conservata presso il deposito organizzato del Museo di Strumentaria medica in quanto l’attività di catalogazione è in corso: grazie alla decennale collaborazione con l’ICCD (Istituto Centrale del Catalogo e della Documentazione) è stata aperta una campagna secondo gli standard nazionali dedicata proprio all’Antica Farmacia Parenti. Dopo un confronto con l’Istituto è stata scelta la normativa PST (Patrimonio Scientifico e Tecnologico) come il più adatto anche a un patrimonio di questo tipo. Si tratta pertanto di un’operazione che arricchirà il Catalogo Nazionale dei Beni Culturali con nuove tipologie di beni. Gli studi sugli autori (essenzialmente ditte farmaceutiche, laboratori chimici e farmacie) stanno rivelando uno spaccato del mondo delle farmacie di inizio secolo XX, dedicate alla produzione di cose più disparate oltre ai farmaci, dai dolci ai coloniali come anche prodotti per imbianchini o simili.
Non mancano infine documenti di corredo come un quaderno con i prezzi dei prodotti in vendita, via via aggiornato nel corso degli anni, e gli “oggetti misteriosi” più o meno sempre presenti nelle collezioni scientifiche. Ad esempio un pacchetto di cartine che a tutta prima sembrano di alluminio, o “carta stagnola”, in realtà deve trattarsi di un altro materiale, molto più pesante e morbido, ma trattasi di mistero anche per lo stesso donatore. Il lavoro insomma è ancora lungo ma interessante e potrebbe rivelare ulteriori sorprese.
Angela Caronna – Museo di Strumentaria medica